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CASA,
Coss Flavio
"Non sa dove sta di casa". Così si dice di una persona dal comportamento strano che fa pensare a qualche disordine mentale. E’ capitato anche a me, non il disordine mentale, per fortuna, ma di non sapere dove stessi di casa.
A Fiume , dove sono nato, abitavo in un rione che conoscevo a menadito e quando, per qualche circostanza dovevo uscirne, pur essendo piccolo, conservavo il senso dell’orientamento sapendo dov’era il monte e dove il mare. Persino i manovratori delle gru dei cantieri come ordini usavano:
" Vira, cala, monte e mar."
Poi son partito per l’Italia, esule. Dopo due giorni sono sceso da un vagone merci davanti ad un piccolo edificio con la scritta "Laterina". Un unico binario, deserto avanti e dietro, intorno colline arate e forre boscose. Eravamo in tanti, provenienti dal campo di smistamento profughi di Udine, con valigie e fagotti. Con dei camion, per strade polverose a saliscendi, siamo stati portati al campo profughi distante una dozzina di chilometri. Era un campo militare di prigionia nel quale erano stati ospitati, a seconda del progredire del fronte di guerra, prima soldati americani e inglesi e poi italiani.
Nessuno sapeva esattamente dove fossimo, qualcuno diceva vicino ad Arezzo, ma dove era Arezzo?
Da che parte stava il mare? Come mai la terra era giallastra e non rossa? Ero disorientato e nei quattro mesi seguenti, malgrado avessi i miei genitori a fianco e ci fossimo ritagliati con delle coperte appese a dei fili tesi un piccolo spazio in una baracca, avevo sempre una sensazione di disagio come se la mia vita non fosse reale perché non sapevo dove essa si svolgeva. Qualche mese dopo mia madre mi accompagnò al collegio Fabio Filzi di Grado. Era combattuta tra la gioia di sapermi in un posto migliore del campo profughi, con la possibilità di andare a scuola, e il dolore per il primo distacco della nostra vita. Mi raccomandò di essere obbediente e puntuale; feci del mio meglio e il giorno dopo finii di fare la mia branda per primo. Peccato che avessi dimenticato di mettere un lenzuolo.
A Grado sapevo dove ero, geograficamente. A Monfalcone abitavano dei miei zii che avevo incontrato prima di entrare in collegio, lontano si intravvedeva Trieste, che conoscevo, e oltre il mare, l’Istria. Ma il glorioso collegio Fabio Filzi di Pisino era ospitato in un piccolo albergo dal bene augurante nome "Excelsior". Pensai, conoscendo il significato della parola, per aver letto una poesia con questo titolo, che, vista la situazione in cui mi trovavo, non avrebbe potuto che andare così.
Ma ero in un albergo e non in una casa, lontano dai miei e la mia vita era sospesa. Ogni giornata doveva essere ancorata a nuovi riferimenti. Per fortuna c’era il mare. Un mare grigio, pacifico e freddo perche era inverno. Le passeggiate sulla diga foranea mi riempivano l’anima di infinita malinconia.
Non voglio dimenticare i momenti di allegria con i miei compagni, né le gioie di ogni piccola conquista, ma tutto mi sembrava provvisorio. Aspettavo qualcosa che mi restituisse a me stesso.
Così passarono due anni ed il collegio si trasferì a Gorizia con sede nel vecchio arcivescovado.
Non più camerette ma cameroni, sempre brande a castello. Mi ci ero ormai abituato e solo quando talvolta l’istitutore Gabrielli passava per la camerata e ci rimboccava le coperte sentivo, misto ad un senso di dolcezza, quanto fossi solo e lontano dai miei e senza casa.
Mia madre era sempre al campo profughi, mio padre in Svezia a cercar lavoro. Così il senso di disgregazione della mia famiglia era completo e il mucchietto di lettere che ci scambiavamo cresceva e con esso la rassegnazione all’idea che nulla avrebbe più potuto unirci.
E venne infine il giorno in cui il collegio ebbe una sede sua nella ex caserma della Julia.
Ricordo la scritta sulla facciata," Collegio Fabio Filzi", scritta in grande. Mi fece impressione.
Finalmente, se non io, almeno il collegio aveva una casa. Ed era tutto corrispondente ad un progetto d’uso razionale : aule di studio, camerate, cucine, refettorio, aula magna, servizi. Non più brande ma letti, e col copriletto! Ero contento, molto contento. Non era una casa propriamente mia ma era una casa in cui vivere con tanti amici. Se qualcuno mi chiedeva dove abitassi dicevo:"Al collegio Fabio Filzi." E tutti lo sapevano senza che avessi bisogno di spiegare dove.
Come sempre accade, ripensando dopo tanti anni alle difficili vicende di allora, sono portato a ricordarne gli aspetti più positivi e piacevoli e mi sorprendo a considerare quanto grande fosse il mio senso di appartenenza al collegio. A scuola io ed i miei compagni di collegio eravamo chiamati "quelli del Filzi" e godevamo di una certa considerazione, di cui andavamo fieri.
Nel tempo la mia famiglia si sistemò a Torino dove mio padre trovò casa e lavoro. Io rimasi in collegio per finire il liceo ma ormai mi sentivo fuori casa e non più senza casa.
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